Alla Fondazione Rovati di Milano sarà esposta, fino al 3 agosto, una mostra raffinata dedicata al popolo dell’Italia antica vissuto tra il IX secolo a.C. e il I secolo a.C.
La civiltà etrusca, con la sua aura di mistero, la sua affascinante estetica e i suoi materiali distintivi, grazie anche a straordinarie scoperte archeologiche come l’Apollo di Veio (1916) ha rappresentato nel Novecento un potente stimolo creativo per artisti, intellettuali e designer. Lo racconta la raffinata mostra Etruschi del Novecento (inaugurata il 2 aprile e visitabile sino al 3 agosto) allestita – nel solco dell’identità della Fondazione, oltre ad avvalersi di prestiti da musei, istituzioni e collezionisti- nel museo d’arte della Fondazione Rovati di Milano, curata da Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Giulio Paolucci, Alessandra Tiddia. Reperti archeologici etruschi e arte contemporanea convivono nelle sale dell’elegante palazzo storico in Corso di Porta Venezia 52, fatto costruire nel 1871 dal Principe di Piombino (è stato della famiglia Bocconi poi dei Rizzoli e dal 2016 dei Rovati). Più di 200 pezzi archeologici di incredibile bellezza della civiltà etrusca (a cui si aggiungono decine di documenti, libri, fotografie, riviste) tra vasi, buccheri (tipologia di ceramica nera, resa così per il particolare processo di cottura senza ossigeno che solo gli Etruschi erano in grado di fare), askoi (recipienti per liquidi oleosi), urne cinerarie, sono esposte accanto a capolavori di artisti come Pablo Picasso, Andy Warhol, Massimo Campigli, Alberto Giacometti, in un dialogo continuo e sorprendente. Il gioco di rimandi si ripete sala dopo sala. Oltre due millenni separano tra loro le opere esposte eppure è necessario avvicinarsi alle teche e leggere le didascalie per attribuire ciascuna di esse all’epoca corretta.

Al piano nobile nella Sala Azzurra, accanto a vasi e reperti etruschi spicca il grande acrilico rosso-azzurro The Etruscan Scene: Female Ritual Dance di Andy Warhol (1985). L’opera (che parte della collezione permanente) è la reinterpretazione di una figurazione celata dentro la tomba funeraria delle Leonesse a Tarquinia. Tra gli affreschi della tomba, un dettaglio in particolare cattura la sua attenzione: una coppia, un uomo e una donna che danzando si slanciano l’una verso l’altro, cariche di colore, gioia e movimento, capaci di dare vitalità anche alla più triste celebrazione della morte. La Sala Warhol accoglie anche volumi di arte, riviste, opere grafiche e manifesti dedicati agli etruschi. Tra le altre chicche, il manifesto della Biennale del 1934 realizzato da Marcello Nizzoli, dove appare il sorriso enigmatico e beffardo dell’Apollo di Veio. Ci entusiasmano due straordinari dipinti di Massimo Campigli, Testa di profilo con anfora (1930 e La canicola (1928) stregato dalle urne funerarie conservate al Museo di Villa Giulia a Roma incorporò nei suoi dipinti i volti enigmatici e le pose statiche delle figure etrusche, dando vita a composizioni che sembrano evocare un’epoca impossibile da collocare nel tempo. “Un vero coup de foudre, scriverà l’artista, tal quale come si può incontrare ripetutamente una donna che siamo destinati ad amare. Comunque comincia da quell’incontro […] la mia pittura tipica, è una pittura felice. Nei miei quadri entrò una pagana felicità”. Accanto, Il bronzo del Busto di Inge (1966 e 1967 circa) di Giacomo Manzù che, nelle forme tondeggianti del busto, strizzano l’occhio al canopo destinato ad accogliere le spoglie di un guerriero (inizio VI secolo a.C.).

Particolarmente significativa è l’esposizione della serie Etruschi (1984) di Paolo Gioli, che reinterpreta le effigi delle urne cinerarie con l’uso della fotografia polaroid e con tocchi cromatici, ne dona nuova vitalità e la serie Copertine (1985) di Alighiero Boetti, , opera inedita della collezione della Fondazione Luigi Rovati, che ripercorre eventi storici attraverso un’originale rilettura della grafica editoriale. Scendiamo ora al piano -1, il cosiddetto ipogeo, che, nell’allestimento firmato da Mario Cucinella, evoca una necropoli sotterranea. Ad accoglierci è il ruggito del Leone Urlante (1957) di Mirko Basaldella, fuso nel bronzo. A colpire un’opera di Fausto Melotti, dove dal corpo tondeggiante del vaso, in ceramica smaltata , modellato in maniera grezza e asimmetrica, si allungano i colli di due galli che al posto della cresta sembrano sfoggiare una grossa corona. Una meravigliosa sequela di terrecotte, ceramiche e bronzi, bracciali, orecchini, fibule, vasi dalle bocche zoomorfe e dalla forme stravaganti. Il tema delle figure distese, ovvero i Recumbenti moderni, è evocato dall’opera di Leoncillo Leonardi, una potente e drammatica reinterpretazione del celebre Sarcofago degli sposi di Villa Giulia, collocato accanto al prezioso Coperchio di urna cineraria, in prestito dal Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia.

Gli askoi etruschi (vasi per liquidi oleosi) e le antiche ciste (vasi cilindrici con coperchio destinati a contenere cosmetici o gioielli) rivivono nei vasi in porcellana e oro realizzati da Gio Ponti a metà degli anni Venti, quando assunse la direzione artistica della manifattura Richard Ginori. Le ciste (forse la forma più utilizzata dall’architetto e designer perché è la più architettonica, ricordando un tronco di colonna) gli valgono il Gran Prix all’Esposizione internazionale di arti decorative e industriali moderne di Parigi. Marino Marini, dal canto suo, amava autodefinirsi “un etrusco moderno”, affermando esplicitamente il debito artistico e l’affinità verso questa antica civiltà. Una meravigliosa testa quella di Dicomana, 1921, di Arturo Martini dialoga con Testa di guerriero, terracotta del 510-500 a.C. circa, attribuito alla scuola di Vulca e proveniente dal Tempio dell’Apollo in Portonaccio/Veio. Anche Pablo Picasso trovò nei buccheri e nelle ceramiche etrusche degli interessati spunti per la sua produzione di ceramiche. Come tesimonia il vaso Canard pique- realizzato nel 1951, un’incantevole brocca in ceramica dipinta a colori (nero, blu, verde, marrone) e smaltata di bianco, che funge da vaso porta fiori, a forma di anatra con il volto umano Lo scultore francese Alberto Giacometti invece, rimase colpito dall’Ombra della Sera di Volterra, una figura slanciata e allungata, che ebbe grande impatto sulle sue celebri sculture filiformi, come Donna che cammina (Femme qui marche, 1936) qui esposta.

Michelangelo Pistoletto con l’Etrusco, nel 1976 colloca una riproduzione della statua etrusca dell’Arringatore, raro esemplare di scultura in bronzo etrusco-romana in bronzo dorato, davanti a uno specchio, un materiale che l’ artista incomincia a usare dal 1962. L’influenza etrusca non si limitò alle arti visive, ma si estese anche al mondo del la moda. Rimane memorabile la “Linea Etrusca” (1956) lanciata dalla casa d’alta moda Fernanda Gattinoni, riprendendo texture e ornamenti dei vasi, delle pitture e dei gioielli antichi. Dichiaratamente ispirati ai pettini etruschi, anche g li orecchini ideati da Fausto Melotti, o i bracciali di Afro Basaldella. La mostra si conclude con una sezione dedicata alla chimera simbolo dell’arte etrusca con opere di Mario Schifano di quattro metri per dieci formato da dieci tele accostate, Amare Chimere realizzata nel 1985 la sera del 16 maggio in piazza SS Annunziata, a Firenze sotto gli occhi del pubblico arrivato per assistere all’inaugurazione delle otto mostre celebrative dell’anno degli Etruschi. “Creerò una chimera. Una chimera autentica, come la fantasticavano gli Etruschi: un animale impossibile, fatto da dieci bestie diverse, metafora della superiorità della fantasia sulla realtà. Una chimera non si può raccontare, ma si può dipingere”, dichiarava a quel tempo l’artista.
Sabato 14 e domenica 15 giugno, nella sala convegni è in programma un ciclo di proiezioni per scoprire il mondo etrusco nel cinema: l’oscurità inquietante delle tombe, paesaggi rupestri, l’immaginario delle danze e dei banchetti.
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