D’Elia interpreta il grande pittore olandese sul palcoscenico Teatro Leonardo di Milano

Entri e il sipario è aperto. Sul palco si spalanca un campo di grano color dell’oro e del bronzo, come squassato dal vento. E’ posta una semplice sedia, un cielo blu. In sala si sentono i grilli, il fruscio del vento, il frinire di cicale. Così, come entri e ti accomodi, sulla poltrona, già cominci ad entrare nel mondo, nell’ anima di Vincent. Buio, stacco musicale un po’ violento, aggressivo, luce… ed eccolo Corrado D’Elia/Vincent Van Gogh seduto sulla sedia. “Dipingere è come arare un campo di grano. E l’emozione è così forte, così impulsiva, così antica, che quasi non sento la fatica”. E inizia il viaggio, come una ballata poetica, nella vita di Vincent, in quel mistero che sta dentro la sua anima ad asciugare”, con quella passione viscerale per l’arte (“ho bisogno dei colori come fossero cibo, mi nutro di arancio, di blu, di verde)”. Attore, regista, sceneggiatore, Corrado d’Elia mette in scena al Teatro Leonardo di Milano (fino al 24 marzo) uno spettacolo uno spettacolo di rara intensità, dedicato a uno dei più celebri e mitizzati pittori di tutta la storia dell’arte: Io, Vincent Van Gogh.

“C’è qualcosa in lui che tocca una corda universale, che coinvolge tutti. I suoi quadri sono dentro di noi, Tutto il mondo conosce la vita e le opere del grande pittore (In tutta la sua vita ha venduto un solo quadro per trenta franchi! Oggi è l’artista più pagato alle aste,) e in tanti hanno provato a scriverne, nel cinema e anche in teatro. Com’è possibile dunque sorprenderci ancora? Come restituire al pubblico l’intensità, le emozioni che l’opera di questo artista suscita in noi? Come restituire al pubblico qualcosa di diverso da quello cui è abituato? Sapevo con esattezza quello che non volevo fare: una lezione teatrale, spiegare, descrivere, commentare, proiettare immagini di quadri o interpretare davvero come attore in prima persona il personaggio di Van Gogh”, spiega Corrado d’Elia,

Solo in scena, seduto per tutto il tempo su un palcoscenico che rimanda ai gialli campi di grano, così amati da Van Gogh, (“Questo campo di grano, questo eterno ondeggiare per sempre sarò io”) , Corrado D’Elia incarna il corpo di Vincent. Un lavoro attoriale di compenetrazione, di immedesimazione (“il teatro si fa carne”, dice D’Elia) per svelare un Vincent inedito. L’uomo, ancora prima del pittore. Con la potenza di un testo poetico (meritoriamente risultato vincitore della XVII edizione del Concorso Europeo per il Teatro e la Drammaturgia Tragos per la Sezione Autore Contemporaneo.) Nessun dipinto, nessuna traccia visiva dell’arte di Vincent. La scenografia implode in pochi elementi ma di grande efficacia. Il disegno luci della brava Chiara Salvucci (che confessa ha un’intensa passione per l artista) è fatta di pennellate di luci,  in un succedersi di violenti e improvvisi cambi di luce: dal blu cobalto scuro di vorticosi cieli nella notte stellata al giallo dei girasoli e dei campi assolati. Nel profondo buio, l’accendersi di una lampadina può evocare gli interni in penombra e i volti dei famosi mangiatori di patate.

Lo spettacolo prende vita come davvero fosse la pittura di un quadro. Un emozionate serrato flusso emotivo, dai toni più delicati a quelli più accesi, che pare comporsi via via, davanti a noi, a grandi pennellate, le parole come scie vorticose che si inseguono entro cieli dal blu intenso, a turbarci, commuoverci. La nascita, segnata, quasi fosse il presagio di un futuro difficile, dalla morte del fratello (da cui eredita il nome Vincent), avvenuta esattamente un anno prima della sua venuta al mondo. Gli anni di Parigi, il rapporto epistolare col fratello Theo, la vita ad Arles, l’amicizia travagliata con l’artista Paul Gauguin, il manicomio e in ultimo quell’urlo agghiacciante. “Io vi supplico, spegnete il sole, vi prego, spegnete la luce, lasciatemi riposare… Vincent il dannato, il reietto è caduto, si è schiantato, è perduto”. Nel silenzio repentino e spiazzante di un cambio di luci, in questo urlo profondiamo anche noi, all’improvviso. Quel grido  (sulla soglia dell’eternità, come in un suo celebre quadro, realizzato  due mesi prima della morte, a soli 38 anni,  mentre si trovava presso l’ospedale di Saint-Remy de Provance) )  risuona ancora dentro di noi.

Di Cristina Tirinzoni

Giornalista professionista di lungo corso, ha cominciato a scrivere per testate femminili (Donna Moderna, Club 3, Effe, Donna in salute). E’ stata poi per lungo tempo redattore del mensile Vitality e del mensile Psychologies magazine e Cosmopolitan, occupandosi di attualità, cultura, psicologia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore, 2014) e Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni, 2010).

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