La destra ha commemorato il cinquantesimo anniversario della morte di Ramelli, attivista del Fronte della Gioventù. Un camerata, veniva definito il ragazzo, che negli anni Settanta anziché valutare con gli occhi d’una nazione risollevata dalle macerie create dal Fascismo, si metteva a rimpiangerlo
Si potrebbe domandare – il giornalismo giovane e pluralista può farlo, noi che abbiamo conosciuto il neofascismo dagli anni Sessanta agli Ottanta abbiamo qualche idiosincrasia – ai possessori di quelle braccia tese che per l’ennesimo raduno (ma i cinquant’anni di ieri erano un’occasione speciale) perché il ricordo di Sergio Ramelli debba prevedere il rito fascista del “Presente”. Perché? In attesa di risposte originarie, lanciamo considerazioni dirette. Perché i neofascisti del Terzo Millennio considerano lo studente Ramelli un camerata da onorare. Un camerata che negli anni Settanta anziché valutare con gli occhi d’una nazione risollevata dalle macerie create dal Fascismo, si metteva a rimpiangerlo. Non studiava la Storia il giovane Ramelli? Non sappiamo. Certo, s’era infilato nella militanza di chi dalla Storia non voleva imparare nulla. Colpa solo parzialmente sua, poiché il pluralismo democratico rinato con la Liberazione dal Fascismo aveva ‘sdoganato’, ben prima delle idiozie delle ‘ragioni dei ragazzi di Salò’ (ragazzi anch’essi, ma dediti alla tortura e fucilazione di partigiani e civili) i rimasugli di quel regime che rientravano nella quotidianità. Vi rientrava non tanto l’ex fascista del così son tutti o dell’opportunismo generalizzato che aveva caratterizzato il Ventennio. Vi rientravano il gerarca, il razzista, la canaglia, il carnefice. Non avrebbero avuto agibilità i Graziani, gli Almirante, i Caradonna padre e figlio, i Borghese. Ma l’Italia, ancora ferita dal nazismo e dal servilismo della Repubblica Sociale, prendeva la via dell’accettazione dei vinti, che con l’alibi del proprio sangue ne avrebbero fatto versare ancora molto negli anni a venire. Ma questo nelle sezioni del Fronte della Gioventù, manipolazione missina d’una precedente denominazione politica antifascista, non si discuteva. Anzi, l’odio e la vendetta erano i pilastri dei programmi para nostalgici delle nidiate adolescenziali missine.

Se fosse un uomo, l’ammetterebbe un missino della seconda ora, di recente assurto addirittura ad apicale carica dello Stato. Ignazio La Russa. Che anch’egli in un Aprile, il Dodici del Millenovecentosettantatré organizzava coi camerati un raduno proprio a Milano, pur sempre città medaglia d’oro della Resistenza. Si trattava d’una protesta contro la violenza (sic) fatta da mazzieri e guidata dal boss della rivolta di Reggio Calabria, Ciccio Franco. Di quell’adunanza paramilitare preparata, decretò la Questura, con pistole e bombe a mano, i deputati missini Franco Servello e Francesco Petronio erano gli artefici, mentre La Russa, leader del Fronte della Gioventù, risultava il responsabile della piazza. In quella piazza, lungo varie strade del centro (viale Romagna, via Bellotti, via Kramer) si riversò il vandalismo dei partecipanti, aderenti anche a Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Fino all’epilogo: il lancio di due bombe a mano in dotazione dell’Esercito, procurate si seppe dallo stragista fascista Nico Azzi, una delle quali squarciò il petto dell’agente del Terzo reparto Celere, il ventiduenne Antonio Marino. Dopo le indagini furono arrestati e condannati gli esecutori materiali dell’omicidio, Vittorio Loi e Maurizio Murelli, sanbabilini iscritti al Movimento Sociale Italiano, anch’essi ventenni. I deputati Servello e Petronio vennero schermati dal Parlamento che non concesse l’autorizzazione a procedere richiesta dalla magistratura; anche la responsabilità politica di La Russa su quel fatto di sangue passava in cavalleria. Era la Milano non ancora da bere, ma da lacrimare per la violenza praticata dalla strage di Piazza Fontana in poi. In quel fervore e nelle speranze connesse si perdevano vite. E’ servito per una riflessione storica e politica del passato remoto e prossimo? Non sembra. Non lo capiva Ramelli, vittima dell’infatuazione neofascista proprio quando i neofascisti insanguinavano il Paese, non l’accettano gli odierni camerati. Per far cosa non lo dicono neppure, nella nebulosa d’un superomismo esoterico che vagheggia il nulla, artigliano solo croci celtiche e nuovi labari, insozzando il tricolore. Presenti sì, ma uomini no, proprio come scriveva Elio Vittorini.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it