Nuovo attacco israeliano all’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud di Gaza, nel quale sono rimasti uccisi venti palestinesi, tra cui 5 fotoreporter (lavoravano per Reuters, Nbc, Al Jazeera e Ap), e un membro della protezione civile
Ore undici. Ospedale Nasser di Khan Yunis. Israel Defence Forces colpisce con un missile il quarto piano della struttura sanitaria. Ci sono vittime. Una decina di operatori intervengono su una scala esterna per prestare soccorso ai feriti dalle schegge, si vedono un fotografo, dei cronisti. Passano alcuni secondi. Mentre il gruppo lavora al soccorso magari ciascuno immagina di poter essere comunque un bersaglio. Tutti prestano aiuto, come non potrebbero… Nella carneficina ordinata da Israele lungo l’intera Striscia, ognuno aiuta l’altro. Eppure l’essenza assassina dell’esercito della morte impone la propria logica al manipolo della vita e puntuale giunge un secondo missile che deflagra squassando i dieci soccorritori, smembrando quei cuori che assistevano chi era già stato colpito. Schegge, calcinacci, fumo, polvere. E urla strazianti. Sotto, la fuga di chi partecipava moralmente al sostegno da offrire a sorelle, fratelli, cittadini cui lo Stato ebraico ruba terra, vita, futuro volendoli cadaveri o profughi eterni. Nelle esplosioni vengono assassinate venti persone, gli ennesimi abitanti senza pace, gli ennesimi giornalisti cui Israele impone viscidamente la morte per sotterrare con loro la temuta verità sul suo disegno genocidario. Ne ricorda i nomi Middle East Eye che perde i collaboratori Ahmed Abu Aziz, attivissimo sin dai primi giorni degli assalti avviati dall’Idf e il suo collega Mohamed Salama. Oltre a loro vengono uccisi: Mariam Dagga, giornalista freelance che ha lavorato con Associated Press, Moaz Abu Taha della NBC, Hussam al-Masri fotoreporter dell’agenzia Reuters.

David Hearst, caporedattore di MEE, è disperato. Considera Aziz e Salama “Cronisti eccezionali, capaci di lavorare in condizioni impossibili” prima d’essere maciullati da Israele. “Aziz aveva il dono di vedere cose che gli altri non riuscivano a vedere e descriverle in modo dettagliato – aggiunge Hearst – Non potendo nascondere la verità sul genocidio che sta perpetrando a Gaza, Israele sta uccidendo quante più persone possibile. Quello che fa è terrorismo praticato da uno Stato”. Nella trappola per soccorritori, col doppio missile che va a martoriare chi presta aiuto quale secondo bersaglio, ricorda gli attentati dello Stato Islamico, fra Siria e Afghanistan. Accadeva a Kabul nel 2018, quando impazzava la strategia dell’orrore imposta dall’Isis-K in funzione antitalebana, oltreché antigovernativa. Era una mattanza per il controllo del territorio, con ampio utilizzo di kamikaze. E soprattutto con bombe che esplodevano fra le braccia dei soccorritori e dei giornalisti accorsi a documentare. Ce ne fu una serie di questi vili agguati, morivano giovani reporter, validissimi fotografi, che mostravano quella guerra solitamente tenuta celata da chi la pratica. La logica del caos, del sangue innocente e copioso da far sgorgare a fiumi per terrorizzare, s’accompagna all’intento di tacitare la realtà, offuscarla con proclami di propaganda, imponendo non solo il veto all’informazione internazionale, ma applicando lo stragismo alla libera informazione di quei palestinesi che dal proprio territorio ridotto a disastro totale praticano audacemente una militanza dell’informazione. A tutti i costi. A costo della vita. Perché un’esistenza schiacciata sotto il giogo impositivo dei crimini reiterati da Tel Aviv, protetti da Washington, ignorati da Bruxelles è una non vita. Denunciarlo è un dovere, come professionisti della notizia, come cittadini d’un popolo che subisce un genocidio, come giovani appassionati della vita, capaci di lottare in ogni modo contro chi, alla maniera dei falangisti d’un tempo, gli sbatte in faccia il suo lugubre: “Viva la morte”.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it