Detriti metallici per esplosione nel distretto di Pulwama, nel Kashmir sotto amministrazione indiana. (Sharafat Ali/Reuters)

 L’India è responsabile dell’attacco terroristico del 22 aprile. Sembra il prologo delle guerre scoppiate negli anni passati. Il vero responsabile è il Primo Ministro Modi che da anni è impegnato a esasperare i rapporti all’interno di un Paese, che si è allontanato da figure pacifiste come Gandhi e Nehru

L’India lancia un attacco missilistico sulle abitazioni civili nelle aree del Punjab e Kashmir pakistani e fa una trentina di morti. Secondo Islamabad la cifra è più del doppio e assume la fisionomia dell’escalation militare. Non più le scaramucce, seguite all’attentato terroristico del 22 aprile, fra reparti dei due eserciti schierati lungo gli oltre settecento chilometri di confine che separano le rispettive giurisdizioni a nord e sud del Jammu e Kashmir. E’ voglia di guerra come nel 1949, nel 1965, nel 1971. Possibile? Possibile sì, secondo più d’un osservatore critico con la spirale nazionalista di Narendra Modi, da anni impegnato a esasperare i rapporti all’interno del suo Paese coi concittadini islamici e ora col Pakistan additato quale sponsor di vari gruppi di quel fondamentalismo. L’accusa non è ideologicamente neutrale visto che il premier indiano e il suo Bharatiya Janata Party incarnano e propugnano un altro fondamentalismo, quello del peggior induismo. Il leader che propone il Bharat come potenza mondiale ha ripreso e rilanciato il suo peggiore spirito incancrenito dai germi fascisti e razzisti dell’hindutva, che fa dell’etnìa e della religione il fulcro per selezionare gli indiani puri. Era un pensiero diffuso all’avvìo del Secolo Breve, pur distante migliaia di chilometri dal coevo nazionalismo europeo che originò fascismo e nazismo ne ripercorre alcuni obiettivi, inserendoci l’elemento confessionale. L’India moderna dei padri Ghandi e Nehru che avevano tenuto a freno tale deriva ideologica, non fa più presa sulla maggioranza d’una nazione che insegue potere, denaro, supremazia e deve trovare nemici per compattare il suo sogno di primato. Così i modelli o gli interlocutori politici di Modi diventano quegli autocrati di cui un buon pezzo di mondo sente bisogno. Non importano latitudini o tendenze culturali, può piacergli l’ortodosso Putin o l’islamico (ma non vicino di casa) Erdoğan, come lo sceriffo degli affari Trump. L’essenziale è primeggiare, a fianco di chi si vedrà di volta in volta.

La campagna Sindoor lanciata da Narendra Modi

Fra gli stragisti in attività Modi deve avere un debole per Benjamin Netanyahu, e per l’efficienza criminale d’Israele, se ne imita la via comunicativa etichettando operazioni di guerra con epiteti a effetto. L’attacco di stanotte l’ha definito Sindoor, un simbolo femminile tutt’altro che bellico, poiché indica la condizione delle spose hindu che si colorano di vermiglio la fronte così da essere riconosciute. Il governo di Delhi l’ha utilizzato per ricordare che le turiste indiane assalite coi loro uomini a Pahalgam sono rimaste vedove perché i partner sono stati sterminati a sangue freddo dai terroristi, probabilmente jihadisti. C’è un mistero sull’attacco rivendicato dopo due giorni da un sedicente Fronte della Resistenza, che gli analisti considerano una costola dissidente della più nota organizzazione deobandi Lashkar-e Taiba, peraltro negli ultimi tempi poco attiva. Un successivo comunicato del gruppo ha smentito il primo comunicato, facendo ipotizzare giochi d’Intelligence piuttosto ricorrenti in Pakistan. Eppure al di là di supposizioni e accuse i servizi segreti indiani in due settimane d’inchiesta non sono riusciti a raccogliere prove non solo sull’identità dell’attacco jihadista ma su presunti aiuti e coperture dello Stato o dello ‘Stato profondo’ pakistano. Probabilmente a Delhi non servivano conferme, bastavano le congetture per poter sferrare l’attacco cui però fa seguito l’affermazione che non seguirà un’escalation. Eppure per tradurre in realtà la dichiarazione occorrerà attendere l’eventuale risposta delle poco arrendevoli Forze Armate pakistane. Il futuro è aperto. Per ora si sa che i nove siti colpiti, di cui quattro nel Kashmir, sono dichiarati da Islamabad obiettivi civili, e se notizie d’agenzia rivelano che fra costoro ci sono alcuni familiari del leader d’un altro gruppo jihadista, Jaish-e Mohammad, per Delhi è la conferma di come il governo guidato da Ahmed Sharif tolleri la presenza terrorista sul suo suolo.

Pakistani che bruciano il fantoccio che raffigura Narendra Modi

La presenza di migliaia di madrase (all’apice della virata islamista del Paese se ne contavano quarantamila) che divulgano le posizioni più radicali delle teorie deobandi non è un mistero, ma proprio il ceto politico e la casta militare pakistani nel tempo hanno sostenuto una battaglia anche armata contro i gruppi del fondamentalismo. La realtà è che uno speculare fondamentalismo confessionale è in atto nella nazione indiana, prendendo spunto dalla fede hindu per sostenere xenofobia e purezza razziale contro concittadini musulmani e cristiani (che superano i trecento milioni di fedeli) e altre minoranze meno numerose. E’ questa la miccia che può far esplodere serbatoi di fanatismo collocati in templi dedicati a Shiva o in scuole coraniche. Un nuovo conflitto che infiamma un altro angolo del mondo non sarebbe auspicabile per una diplomazia internazionale debole che, al di là di leader implicati con le proprie scelte in grovigli bellici, non mostra negoziatori carismatici. In più da tempo le guide indiana e pakistana risultano silenti fra loro, e questo non è un segnale rassicurante. Una potenza regionale angustiata da non pochi problemi qual è l’Iran, cerca di sminuire l’attrito e potrebbe lavorare per una distensione, se potrà agire. Mentre le storiche alleanze di supporto, americana verso il Pakistan e russa verso l’India, hanno perso impatto e stabilità. Proprio l’arrivo alla Casa Bianca di Trump ha spinto Modi ad avvicinarlo e omaggiarlo, con conseguente narciso gradimento del numero uno statunitense che pensa a un uso anticinese di questi nuovi approcci. Pechino che cinque anni addietro aveva avuto con Delhi contrasti nella gelida terra del Ladhak, situata nel territorio kashmiro indiano nella catena occidentale himalayana, come fa spesso sta a guardare. I rinnovati equilibri internazionali lo danno vicino al Pakistan anche sul versante delle forniture belliche che gli Stati Uniti hanno ridotto a Islamabad. Ma oltre gli intrecci geostrategici è il grande business delle multinazionali armate, ampiamente guidato da aziende americane (Lockeed Martin, Boeing, Raytheon Technologies, ecc.), a sorridere dei nuovi attriti del mondo.

articolo pubblicato su    http://enricocampofreda.blogspot.it

di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022 • L'Intagliatore 2025

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