Un titanico Elio De Capitani porta in scena il capolavoro di Melville rivisitato da Welles

Londra 1955. Orson Welles, il leggendario genio del cinema (che aveva già partecipato alla trasposizione cinematografica diretta da John Huston) riscrive e porta in scena al Duke of York’s Theatre di Londra Moby Dick Rearsed, il capolavoro di Herman Melville, messo alla prova, come sottolinea il titolo. Immagina una compagnia alle prese con l’allestimento del Lear shakespeariano, ma tra una prova e l’altra l’impresario teatrale decide di passare al Moby Dick. E Welles ne fa un nuovo capolavoro, ugualmente epico e dal respiro shakespeariano. Sfida altrettanto riuscita per Elio de Capitani che ha portato in scena sul palco del Teatro Elfo Puccini di Milano il Moby Dick di Welles (nella traduzione magnifica di Cristina Viti che restituisce la forza poetica della prosa del romanzo), affiancato da una magnifica “ciurma” di attori; Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Di Sacco e Vincenzo Zampa.

“Welles sente di assomigliare al vecchio capitano Achab che cerca in ogni mare la balena bianca, che anni prima gli ha mozzato la gamba destra, ossessionato e insieme soggiogato dal suo nemico, e di non resistergli”. Non mollerò mai fino alle fiamme della perdizione!”, scrive nelle note di regia De Capitani, che proprio come fece Welles, interpreta ben quattro personaggi: l’impresario teatrale, Lear, il vecchio folle capitano del Pequod e Padre Mapple.

Quando si spalanca il sipario, pochi gli arredi. Tre scale di alluminio che diventano gli alberi del Pequod, una sedia da barbiere rialzata che è trono (di Re Lear) e cassero della baleniera, alcuni tavoli di metallo su rotelle, elementi di ferro.  Sul pavimento dei tratti grafici che ricordano le cartografie con segni rosso sangue. ll palco è immerso nella penombra che le luci fredde e penetranti di Michele Ceglie avvolgono in uno spazio dominato da un fondale enorme, un grande telo bianco a simulare una vela che si agita cangiante e mutevole, gonfiata dal vento dell’oceano, e le onde marine che vorticosamente tutto sommergono, e creano un effetto visivo sensazionale. Il colore degli abiti dei marinai soprattutto grigi e azzurri sbiaditi (creati da Ferdinando Bruni, recuperando materiali e stoffe del magazzino del teatro) suggerisce un senso di livido terrore, come bagnato dalla fatica e dall’acqua.  C’è trambusto. Gli attori lì convocati per iniziare le prove del Re Lear di Shakespeare si lamentano a causa del ritaro dell’impresario. Che arriva e dopo avere fatto un breve provino alla ragazza che interpreta Cordela che non lo convince, decide che ad andare in scena non sarà il dramma di Shakespeare ma la storia di Moby Dick di Melville. E tuttavia si rende conto che essendo una vicenda che si svolge prevalentemente nell’oceano, appare irrappresentabile. Tutto deve essere immaginato dal pubblico. E’ lo stesso impresario (De Capitani) che chiama in causa gli spettatori invitandoli a sopperire con la fantasia a quanto la compagnia non riesce a fare con i propri mezzi.  Si salpa sul Pequod a caccia della balena, del terribile mostro marino bianco. E siamo immediatamente catapultati in una rappresentazione teatrale e psichica di un’avventura di mare, inseguendo mostri spaventosi in cui odio, amore, paura ed ossessione si mescolano (“Per amore dell’odio… io ti uccido”, urla Achab). In una tempesta che è primariamente esperienza sensoriale e visiva e sonora. Alla fine il mare c’è, ci sono gli spruzzi della balena bianca e ci sono le scialuppe che si gettano al suo inseguimento, c’è la lotta tra le onde e lo schianto del Pequod. La potenza della parola ce li fa vedere. Il movimento della luce fa schiumare le onde. La musica dal vivo di Mario Arcari e i canti in inglese diretti da Francesca Breschi che riprendono le suggestive canzoni degli Sea Shanties, i tipici canti dei marinai, riempiono intensamente la scena generando emozioni profonde. Molti suoni di navigazione: ritmi battuti sul metallo dei tavoli, colpi secchi e legnosi di bastoni per tenere il ritmo. Un piccolo flauto riesce a farci sentire il canto delle balene. Fino a uno strepitoso finale. Il telo appeso alla graticcia gonfiato d’aria, manifesta le forme mostruose e insieme suggestivamente vaghe della testa immensa del capodoglio bianco. L’equipaggio è schierato di fronte al mare della platea. Ismael (l’unico che sopravviverà e racconterà la storia) è steso sul proscenio e si divide coralmente con gli altri le descrizioni delle azioni: gli ordini ai fiocinatori, i comandi alle vedette sulla coffa di trinchetto. I marinai colpiscono con i palmi i piani di metallo dei tavoli, inclinandoli a seconda delle onde, un frastuono crescente dominato da Achab al centro, alto sul cassero, con lo sguardo fisso. Quando lo vedranno salire il mostro marino il grido di battaglia è “Soffia Soffia”. Al pari della voce di Re Lear “Soffiate o venti, e fatevi scoppiare le gote, Infuriate. Soffiate cateratte e trombe del cielo riversatevi sulla terra finché abbiate sommerso tutti i campanili”. La mascella gigante di Moby Dick compare ma poi s’inabissa di nuovo, riemerge. Il capitano Achab la insegue, tira il suo rampone, che affonda nella carne della balena, conficcandosi. Riesce a ferire Moby Dick, ma resta avvinghiato nel cordame dei vari ramponi e scompare nell’oceano oscuro. Poco dopo si inabissa nel vortice marino anche il Pequod. “E il grande sudario del mare tornò a rollare come rollava cinquemila anni fa”. Quando il mare si richiude, De Capitani, tornato l’impresario del teatro, ordina di abbassare il sipario.

Vi lasceremo con il fiato sospeso, aveva promesso De Capitani. Di più. Ci ritroviamo senza respiro. Travolti dalla sublime potenza immaginifica del grande teatro che riesce a far ci vedere l’invisibile, a far risuonare la potenza della parola. Stregati come i suoi marinai, dal fascino oscuro del capitano Achab, un titano schiavo della sua oscura disperante ossessione mortifera (ma prima del finale getterà nell’oceano una lacrima). Intrigati dai molteplici e contradditori simbolismi che fanno di questa opera leggendaria un pozzo senza fondo (lasciando al lettore-spettatore ulteriore spazio di pensiero e immaginazione). Una metafora della follia umano contro la forza della natura? La ricerca di un Assoluto, ma che non si può conoscere? Una vertiginosa interrogazione del male dentro e fuori di noi, da combattere. Chissà? Sembra incedibile quanto questi temi risultino ancora così attuali e stringenti. Durante l’attraversata della nostra vita, qual è la nostra Balena Bianca verso cui nutriamo, come Achab, attrazione e repulsione nello stesso tempo?

Seguirà una lunga tournée in vari teatri italiani.

Cormons (Gorizia), 9 marzo, Teatro Comunale; Reggio Emilia, 12 e 13 marzo, Teatro Ariosto; Mestre, dal da 19 al 21 marzo, Teatro Toniolo; Carpi, 23 e 24 marzo, Teatro Comunale; Bari, dal 4 al 7 aprile, Teatro Piccinni; Pisa, 13 e 14 aprile, Teatro Verdi; Como, 16 aprile, Teatro Sociale; Monza, dal 19 al 21 aprile, Teatro Manzoni.

Di Cristina Tirinzoni

Giornalista professionista di lungo corso, ha cominciato a scrivere per testate femminili (Donna Moderna, Club 3, Effe, Donna in salute). E’ stata poi per lungo tempo redattore del mensile Vitality e del mensile Psychologies magazine e Cosmopolitan, occupandosi di attualità, cultura, psicologia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore, 2014) e Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni, 2010).

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