E’ andata in scena un classico della tradizione teatrale rivisitato da Latella, un maestro dell’arte contemporanea

“Spesso noi registi abbiamo sminuito il lavoro artistico culturale che il grande Goldoni ha fatto con quest’opera, l’abbiamo ridimensionata riportando il femminile a ciò che gli uomini vogliono vedere: il gioco della seduzione. Goldoni, invece, ha fatto con questo suo testamento, una grande operazione civile e culturale che ne consacra il genio ancora oggi. Ma quanto è moderna Mirandolina, e pensare che Goldoni l’ha fatta nascere nel 1750 quando ha scritto La locandiera. E’ l’incarnazione di una donna che rivendica la propria libertà e che lavora. Una donna che apre le porte al nuovo secolo, spazzando via i resti di un Settecento in agonia”. Parte da questa riflessione Antonio Latella per la sua versione della Locandiera – ancora oggi uno dei testi più appresentati e amati da attori e pubblico – andata in scena al Teatro Strehler di Milano, (dal 20 febbraio al 3 marzo). 

La regia di Latella si libera dagli stereotipi del goldonismo, elimina mossette, inchini e giravolte dalle movenze di tutti gli attori, “spoglia” la Mirandolina dei tratti di svenevolezza e civetteria. La straordinaria attualità del testo viene evidenziata trasportando la vicenda nei nostri giorni. A interpretarla ha chiamato Sonia Bergamasco, grande attrice e che ben si adatta alla visione di Latella.

La sua è una Mirandolina asciutta, moderna e sicura di sé (e del suo fascino.) Una donna che riesce a gestire egregiamente la sua locanda da sola, ereditata dal padre: non c’è nessun uomo che la comanda. Una donna arguta, lucida, ben padrona dei propri sentimenti (“A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno”). Amatissima e corteggiatissima, dagli uomini che alloggiano nella locanda, niente affatto vezzosa, Bergamasco mette la seduzione in pochi tratti asciutti, quasi seriosi, accenni di premura e scoppi di riso, redarguisce gli spasimanti con autorevolezza, un pò si prende gioco di loro e un po’ li vezzeggia, per calcolo perché piacendo, la cassa si rimpingua. Insomma, una icona ante litteram di emancipazione femminile. Un personaggio complesso, come ha riassunto bene Sonia Bergamasco: “Nella Locandiera convivono la pura risata, il malumore, l’orgoglio, la sfida, il desiderio di libertà e di autonomia e al tempo stesso il desiderio d’amore”.

La trama è arcinota. Alla Locanda alloggiano il Marchese di Forlimpopol (interpretato da Giovanni Franzoni) che non ha un quattrino e può offrire a Mirandolina solo protezione e un fazzoletto di seta, il Conte di Alba Fiorita (Francesco Manetti), un borghese arricchito che si è comprato una Contea (e la ricopre di gioielli costosi) un servo tutto fare (Valentino Villa), che odia ricchi e nobili e che smania e sospira in attesa che la locandiera si decida a “prenderlo in marito”, come prescrittole dal padre sul letto di morte. Quando improvvisamente alla locanda arriva il cavaliere di Ripafratta (Ludovico Fededegni), che disprezza le donne e le loro seduzioni, e in più tratta la locandiera con alterigia aristocratica. Ferita nel suo orgoglio, Mirandolina si ripromette di punire il Cavaliere, e decide di mettere in atto un piano di seduzione per farlo capitolare, facendogli perdere la testa. 

Già all’apertura del sipario lo spettatore rimane colpito dalla scena (di Annalisa Zaccheria) che si presenta con pochi elementi: un imponente boiserie di legno, un tavolo con quattro sedie di plastica e, a lato, un angolo cucina con mobili neri moderni dove sul piano cottura risalta una pentola rossa con cui la locandiera preparerà salsette e intingoli per i suoi ospiti. Una sorta di bed and breakfast. Marchesi, conti e cavalieri, servitori sono tutti in abiti moderni (costumi, di Graziella Pepe), dalla felpa al cappellino con visiera, alla tuta da ginnastica, a improbabili infradito (di cui ci sfugge il significato e chiediamo venia). Bergamasco gira a piedi scalzi in camiciola, o con un impegnativo paio di scarpe nere, tipo anfibi. Le luci di Simone De Angelis sono costituite principalmente da neon che quando avviene qualche cambiamento, qualche scontro, qualche scombussolamento interiore, i neon mandano barbagli, calano di intensità e la luce diventa suono, come un crepitare. Tra il “denaro” del conte e la “protezione” del marchese. Differenza sociale e differenza fra sessi. Tra equivoci e inganni, arricchiti e movimentati anche dall’arrivo in locanda delle due commedianti impostore Ortensia e Dejanira (Marta Cortellazzo e Marta Pizzigallo). Un bicchiere di Borgogna e un bicchierin di vino di Cipro (Marchese: “questo si beve a gocce”) Falsi svenimenti e finti orgasmi. Il furto di una preziosa boccetta d’oro con lo spirito di melissa. (donato dal Cavaliere sempre più innamorato) e improbabili sfide a duello con i bastoncini dello Shanghai, sii arriva allo scioglimento della vicenda, con Mirandolina che annuncia il matrimonio con il fido servitore Fabrizio. Dirà sì a Fabrizio, ma lei tra sé dice: ti sposo, però decido io. Eppure qualcosa sembra non tornare. La regia di Latella insinua un dubbio quando nel caos del finale, in una scena improvvisamente in una luce concentrata, mentre intorno si diffonde il buio, Bergamasco prende il cappotto del Cavaliere, lo ripiega per stringerselo al cuore. Con la voce spezzata dal pianto, spazza via quel turbamento amoroso per il Cavaliere che alla fine all’improvviso, contro i suoi piani, è arrivato a sconvolgerle il cuore, la vita, i suoi piani. Mirandolina resta l’indiscussa padrona della sua vita ma finisce con il prendere Il marito che le aveva destinato il padre. Sceglie la sua indipendenza piuttosto del rischio dell’amore. Come un incauto apprendista stregone ha evocato forze che non sa controllare.  Il suo autore lo sa bene: nessuno può davvero controllare certi giochi, il sentimento sfugge di mano. Il finale di Latella in chiaro scuro  (con la  vittoria dimezzata di Mirandolina)  sa bene invece che ci vorranno ancora un paio di secoli e di lotte perché le donne si prendano tutto: la libertà e l’amore.  E la consapevolezza che l’amore vero non è dipendenza ma vive di libertà.

Di Cristina Tirinzoni

Giornalista professionista di lungo corso, ha cominciato a scrivere per testate femminili (Donna Moderna, Club 3, Effe, Donna in salute). E’ stata poi per lungo tempo redattore del mensile Vitality e del mensile Psychologies magazine e Cosmopolitan, occupandosi di attualità, cultura, psicologia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore, 2014) e Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni, 2010).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *