Gaza distrutta dalle offensive d'Israele

Negli accordi scritti dall’Egitto, con l’intesa della Lega Araba, nelle cariche amministrative non sono presenti cariche ufficiali per Hamas. Il movimento islamico, seppur ridimensionato dalle offensive di Israele, appare più vivo che mai e appare sempre più favorito per governare i gazawi nella nuova Striscia. Nonostante Trump e Netanyahu

Novanta pagine di piano per il futuro, scritto dall’Egitto e avallato dalla Lega Araba riunita al Cairo, che parla della Striscia di Gaza senza menzionare Hamas. E’ l’alternativa al resort trumpiano che molla i gazawi altrove, dove non si sa,  tenendone un nucleo come servitori in loco. Invece l’Egitto e più che altro gli Emirati Arabi Uniti stanziano oltre 50 miliardi di dollari per rifare alloggi e delineare i contorni amministrativi in cui non c’è traccia di cariche per il Movimento islamista. Tutto andrebbe nelle mani dell’Autorità Nazionale Palestinese. Da Hamas lasciano dire, non si mostrano interessati a cariche ufficiali; a controllare quel che si muove nella Striscia sì, come hanno fatto negli ultimi diciotto anni, attacchi israeliani permettendo. Nei particolari ciò che si è discusso al Cairo prevede, ad accordo avvenuto, un semestre di gestione tecnica dei luoghi visionata dall’Autorità Nazionale Palestinese, poi interverrebbero i partiti. Che lascia intuire come Fatah, Hamas e Jihad palestinese dovrebbero definire la gestione di luoghi disastrati, in cui i lavori, non solo per gli edifici ma per le infrastrutture pubbliche (fogne, condotte d’acqua) tutte completamente da rifare, hanno tempi d’esecuzione durante i quali la popolazione va rifornita, assistita, curata. I commenti al lancio del piano evidenziano che “la Striscia non si potrà governare senza l’accordo con Hamas”. Un soggetto che l’offensiva di Israele doveva estirpare e che è invece presente, certamente indebolito ma tuttora armato, e orienta le trattative per il rilascio dei prigionieri, discutendo sulla cosiddetta ‘fase due’. Certo, sotto la minaccia di Donald Trump e Benjamin Netanyahu che i bombardamenti punitivi sulla cittadinanza possano riprendere, ma al di là delle imposizioni, il ridimensionamento del grande nemico di Israele è risultato parziale, e la sua rappresentanza resta. E’ il motivo per cui s’accenna a un futuro senza mai entrare nel merito d’una rappresentanza politica legittimata da un avallo elettorale, quasi impossibile nelle condizioni attuali, ma reale spauracchio del vecchio Abu Mazen. Questi continua ad attribuirsi una centralità che non ha, frutto esclusivo del ruolo ricoperto a favore d’ogni governo scaturito dalle consultazioni israeliane dallo spegnersi della Seconda Intifada in poi.

Combattenti di Hamas a Gaza

Se non ci fosse Mazen occorrerebbe inventarlo. L’età (circa 90) non gli è amica e costituisce l’incognita con cui il fronte arabo vicino all’ultimo disegno (Accordi di Abramo), che avalla il colonialismo del Grande Israele a discapito d’una autodeterminazione del popolo palestinese, deve fare i conti. Il gerontocomio, essenza della leadership dell’Anp, crea un vuoto cosmico. Così i nomi spendibili continuano a essere quelli noti e bruciati da eventi trascorsi e da scelte personali o imposte. Si può riparlare di Mohammed Dahlan per guidare il domani di Gaza? Difficile, quasi impossibile visti i precedenti “ai proiettili” rivolti contro i miliziani di Hamas, quando Fatah doveva cedere ai rivali la direzione della Striscia dopo il successo alle legislative 2006. E ancor più per le pratiche rivolte ad avversari (sempre islamisti) catturati dalla sua polizia nella nativa Khan Younis e dintorni che definire spicce è un eufemismo. Le accuse di torture denunciate dagli arrestati lo inchiodano al pari delle collaborazioni ‘politiche’ con lo Shin Bet. Da allora Dahlan è volato alla corte dell’emiro Mohammed bin Zayed, attivissimo sul panorama geopolitico non solo delle petromonarchie. Se i funzionari di Hamas affermano che il gruppo “non è interessato” a far parte di alcuna struttura amministrativa nel dopoguerra a Gaza, magari alzerebbero la voce, e non solo quella nei confronti dell’ex pupillo di Yasser Arafat. Altro candidato stranoto è Marwān Barghūthī, il leader cisgiordano di Fatah, prigioniero eccellente dal 2002, popolarissimo fra tutti i palestinesi. Sebbene risulti fra i patteggiati alla liberazione nella seconda fase delle trattative, è l’uomo che Israele vuol fare invecchiare nelle sue galere. Troppo carismatico e pericoloso, ossequiato anche da Hamas e dalla Jihad per militanza e coerenza, è l’anti Abu Mazen per eccellenza, non disposto a svendite del suo popolo. Dunque se per veti incrociati è problematico individuare il referente politico del traghettamento anche il piano proposto pone un dilemma, naturalmente a chi non vuol sentire, poiché prospetta il ritiro da tutti i territori palestinesi occupati dal 1967, quale premessa per la creazione d’uno Stato palestinese che farebbe cessare ogni forma di resistenza. A garanzia si suggerisce una presenza internazionale di reparti militari delle Nazioni Unite e di polizia palestinese, addestrati da Egitto e Giordania. Per ora un sogno improbabile, non tanto di realizzazione ma di semplice accettazione da parte dell’Israele in circolazione.   

articolo pubblicato su    http://enricocampofreda.blogspot.it

Di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022 • L'Intagliatore 2025

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