Una centrale nucleare

Il rinvio del quarto incontro sul nucleare iraniano con gli Stati Uniti è slittato in data da destinarsi, perché Netanyahu vuol convincere Trump a rifiutare l’accordo. Inoltre, a causa dell’embargo di alimenti e beni di prima necessità voluti da Israele, i bambini gazawi sotto i cinque anni rischiano di morire di malnutrizione e malattie

Il rinvio del quarto incontro sul nucleare iraniano, che doveva tenersi nuovamente a Roma alla fine della scorsa settimana e che è slittato in data da destinarsi, è direttamente collegato alle richieste di Benjamin Netanyahu all’amico Donald Trump. Il premier d’Israele punta a convincere il presidente americano a riprendere la via del rifiuto d’un accordo, come aveva fatto nel 2018 ritirandosi dal cosiddetto ‘Piano d’azione congiunto globale’. L’approccio da buon statista con cui il tycoon sta affrontando nella sua seconda amministrazione alcuni intrighi mondiali, autoproclamandosi ‘paciere’ sul fronte ucraino e mediatore per la questione del nucleare iraniana, vede l’alleato sionista spingere per il fallimento dell’accordo con Teheran. Bibi propone a Donald due opzioni. L’azzeramento della produzione nucleare anche per uso civile, che peraltro l’Iran non accetterà mai. L’attacco ad alcuni siti sul territorio iraniano: centrali che processano l’uranio (Arak, Isfahan), oppure lì (Fordow, Natanz) dove avviene l’arricchimento dell’uranio ormai giunto a un avanzato grado o ancora direttamente ai reattori di Bushehr e Teheran. Trump ha tamponato, per ora, le bollenti intenzioni del governo di Tel Aviv, sostenendo la bontà della richiesta lanciata dal suo uomo, Steve Witkoff, al negoziatore iraniano Abbas Araghchi: contenimento e possibile riduzione delle sanzioni economiche a fronte d’un freno all’arricchimento dell’uranio. Un baratto momentaneo e parziale, ma pur sempre un atto di reciproca buona volontà. E’ su questa linea, pur minuta, che le delegazioni dibattono da circa un mese con la mediazione messa a disposizione dal sultano omanita che le ha finora ospitate a Mascate e nella sede consolare di Roma. Eppure il prosieguo degli incontri è saltato, e non per il botta e risposta fra i “partigiani di Dio” yemeniti che hanno bucato la Cupola di ferro della difesa dai missili d’Israele, facendo cadere un proprio ordigno a poche decine di metri di una delle torri di controllo dell’aeroporto Ben Gurion.

Guerra a Gaza, rischio malnutrizione in aumento tra i bambini sotto i cinque anni a causa dell’impatto permanente del blocco alimentare e dei beni di prima necessità

Quest’attacco, che ha provocato allarme ma non vittime e a cui l’aviazione israeliana ha risposto nelle ore seguenti facendone invece a sua volta, avveniva domenica 4 maggio, dunque il giorno successivo alla data del tavolo romano, prevista per sabato 3, e già in precedenza cancellata. Perché la pressione di Netanyahu su Trump per la riapertura del dibattuto nucleare iraniano, è elevatissima. Paradossalmente il leader israeliano sul tema aveva trovato maggiore accoglienza in Joe Biden, al di là delle capacità intrinseche dei negoziatori della controparte, dove l’attuale Araghchi mostra una plasticità diplomatica che l’avvicina a Mohammad Zarif (mediatore dal 2013 al 2021) rispetto al successore il generale Mohammad Baqeri. Del resto gli accordi si fanno in due e lo stesso navigato Zarif poco poté davanti alla chiusura unilaterale statunitense incarnata proprio dal primo Trump. Ora la questione appare diversa: l’Iran è fortemente ridimensionato nelle sue mire di potere regionale per quanto sta succedendo da due anni e mezzo nella Striscia Gaza, in Libano, per i nuovi assetti del potere siriano; per tacere dei colpi interni subiti fra attentati, uccisioni di esponenti di rango delle Guardie della Rivoluzione, e offre segnali di oggettiva debolezza dei propri apparati della sicurezza. Perciò l’opzione scelta da Trump è stata il dialogo. Certo se diventerà infruttuoso, potranno riaprirsi i desideri d’attacco diretto ai siti di lavorazione nucleare che Israele vagheggia. Sebbene, parlando di Natanz, i locali sotterranei dove si pratica l’arricchimento dell’uranio a oltre cento metri di profondità risultano irraggiungibili anche usando la superbomba statunitense Gbu-43. Ma quest’arsenale, si parla d’una ventina di ordigni dal costo di 16 milioni di dollari ognuno, è in mano all’US Army non all’Idf. Per ora l’amico Trump fa sfogare Netanyahu su Gaza con quel che ha ed è bastato per raderla al suolo. Nulla ha controbattuto Washington alla decisione di Tel Aviv di spazzare la Striscia con una mega invasione per la definitiva espulsione di quanti più palestinesi è possibile. L’idea del resort resta in piedi. Chi fra i quasi centomila minori gazawi malnutriti vivrà, lo vedrà dai futuri campi profughi.

articolo pubblicato su    http://enricocampofreda.blogspot.it

di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022 • L'Intagliatore 2025

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