Distruzione a Gaza (Photo by Majdi Fathi/NurPhoto)NO USE FRANCE

La rappresentazione del corto circuito tra Usa e Iran e le dinamiche che in qualche modo hanno inventato in modo controverso e arbitrale il concetto di “Stati canaglia”

Medio Oriente Accordo Mark Sykes-Georges Picot (in alto a destra)

Un giorno del secolo scorso allo storico di chiara fama Marc Bloch uno dei figli chiese a cosa servisse la Storia. “A comprendere il presente” rispondeva sinteticamente il padre, concentrando in due parole l’essenza scientifica del suo metodo nella materia. In pieno Novecento il loro presente era burrascoso, reso tale soprattutto da guerre fomentate da imperi economici e da un uso estremizzato delle ideologie. Attualmente il nostro presente non è da meno, fra l’altro con ideologie liquefatte ma più acuminate dalle capacità distruttive d’una soffocante tecnocrazia. Il metodo affinato da Bloch e seguìto da altri storici francesi (Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff) che si concentrarono sulle epoche lontane del Medio Evo, arricchiva lo studio delle fonti incardinate su biografie e dati politici con elementi sociologici ed economici, comparando ulteriori testimonianze (archeologia, arte, filosofia, antropologia) per avere un ampio spettro su cui innescare un’indagine interdisciplinare. Per cogliere, dunque, l’attuale ridisegno forzoso d’un delicatissimo punto d’unione o di frattura del mondo antico e contemporaneo, il cosiddetto Medio Oriente, si può risalire allo squasso prodotto dal primo conflitto mondiale, al quale, contraddizione paradossale, l’uomo Bloch aderì addirittura con l’entusiasmo del volontario. Nella Grande Guerra, si dissolsero imperi sedimentati nei secoli, come l’Ottomano e lo zarista, e imperi più recenti: l’Austro-ungarico e il prussiano-germanico, mentre quello Britannico ancora presente a Asia, era destinato a passare la mano alla sua versione contemporanea d’Oltreoceano. Mentre lo scontro ammucchiava vittime in trincea ed era tutt’altro che definito nella sua vittoria finale, un cadavere certo, l’impero del Sultano, veniva sezionato e spartito fra due potenze dell’Intesa che coi rispettivi diplomatici – il francese Georges Picot e il britannico Mark Sykes – definivano sulle mappe l’entità di nuovi Stati, tracciandone i confini col righello.  Nascevano Libano e Siria, Giordania e Iraq, su cui veniva stabilita la rispettiva giurisdizione dei propri governi. Per tacere della Palestina, destinata a un’amministrazione internazionale mai attuata poiché subentrarono prima la “Dichiarazione Balfour” (1917) e, a seguito della Shoah, la nascita dello Stato d’Israele (1948). La consequenzialità degli avvenimenti storici è una delle chiavi per la comprensione di quel presente citato da Bloch al figliolo. Così nel Medio Oriente riplasmato dai vincitori delle due Guerre Mondiali del ‘Secolo Breve’ s’inseriscono le variabili che turbano e caratterizzano la Storia recente dell’area e i conflitti che appaiono perenni, come quello del popolo palestinese. 

Manifestanti alla rivoluzione iraniana nel 1979 (AP Photo/Michel Lipchitz)

Per non condensare vicende inesorabilmente intrecciate e concause di crisi anche recenti, fissiamo una data attorno a un concetto definito in inglese, anzi in americano, Rogue State. Nel geo politichese dell’ultimo sessantennio “Stato canaglia”. Termine e pensiero lanciati dall’ex attore hollywoodiano diventato 40° presidente statunitense, Ronald Regan. Era il 1980 e l’epiteto veniva rivolto alla Libia e al suo presidente Muʿammar Gheddafi, sostenitore d’un certo terrorismo islamico contro gli Stati Uniti. Fu quindi il democratico Bill Clinton, 42° inquilino dello Studio Ovale, a stilare nel 1993 una sorta di lista nera che aggiungeva alla Libia, Cuba, Corea del Nord, Iraq e Iran. Tutti ‘Stati canaglia’. Perché? Numerosi analisti sottolineavano come gli Usa dalla caduta del Muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenimenti che avrebbero dovuto allentare la tensione globale della Guerra Fredda strisciante, spinsero invece sull’acceleratore elaborando nuove strategie d’intervento politico e militare. Ben oltre lAlleanza Atlantica e quel senso d’Impero moderno che i critici della politica estera americana hanno sempre contestato a Casa Bianca e Pentagono, e che secondo rilanciati princìpi da “legge del più forte” il filosofo Jacques Derrida bollava come abuso di potere sull’altrui sovranità. Gli Stati definiti canaglia in modo non meno canagliesco dal potere di Washington intralcerebbero, praticamente o teoricamente, quegli interessi americani per i quali dall’amministrazione Clinton s’è deciso l’intervento unilaterale della Nato in barba al Diritto Internazionale, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e alla sua Carta. Concentriamoci su uno di questi ‘reietti’, l’Iran. Per la cronaca diventata storia, era stato proprio il duro Regan a interrompere il ‘braccio di ferro’ che accentuava la crisi fra la linea statunitense e quella iraniana attorno al sequestro di cinquantadue fra funzionari e agenti della Cia bloccati nell’ambasciata americana di Teheran. L’azione fu attuata da studenti universitari che occuparono quella sede nove mesi dopo la ‘Rivoluzione Islamica’ e il rientro in patria di Ruhollah Khomeini. Chiedevano, inascoltati, di scambiare i sequestrati con lo Shah. Nel gennaio 1981 Regan subentrò al predecessore Jimmy Carter che per quello ‘smacco’ perdette le elezioni. Nonostante la liberazione finale di tutti gli ostaggi attraverso la mediazione dell’Algeria (sei persone erano subito riparate presso l’ambasciata canadese, altre tredici vennero rilasciate nei giorni seguenti perché afroamericane, mentre le restanti restarono per 444 giorni in balìa dei rivoluzionari) quella fu un’onta mai sanata nell’ego superomistico della politica estera americana, che costò all’intera nazione persiana, non solo al governo degli ayatollah, la collocazione nella lista statale di proscrizione con tanto di embarghi prolungati sino ai nostri giorni. In realtà tutto s’era già incrinato con la Rivoluzione del 1° febbraio 1979 e la cacciata dello Shah, il sovrano d’acciaio, uno dei gendarmi di quel Medio Oriente a trazione imperialista occidentale, disegnato sessant’anni prima sui tavoli della diplomazia europea. 

Reza Pahlavi, la consorte Farah e l’erede Reza Ciro

La sua è diventata l’effige del monarca-fantoccio, autoritario e repressore tramite gli scherani della polizia segreta (Savak). Il suo regno ha garantito l’economia della spoliazione praticata dalle Sette Sorelle e precedentemente ostacolata dal premier Mohammad Mossadeq che s’adoperò per la nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Una mossa che nel 1953 costava al Primo ministro il disarcionamento tramite un golpe militare organizzato da MI6 e Cia, a favore dei propri affari e d’un controllo geopolitico internazionale e interno con l’investitura offerta a un sanguinario quale si dimostrò Reza Pahlavi. Ecco che, per dirla con Bloch, le vicende d’un recente passato chiariscono un pezzo del presente di quel Paese. I cui desideri di supremazia regionale si palesavano ben prima della salita al potere del clero sciita con Khomeini. Proprio la dinastia Pahlavi, subentrata negli anni Venti del Novecento agli eredi Qajar, aveva avuto con la regìa di Reza padre l’ambizione di modernizzare l’Iran. Il sovrano prendeva a modello la riforma kemalista di Mustafa Kemal Atatürk compiuta in Anatolia, con tanto di sviluppo d’infrastrutture e industria pesante, dell’apparato burocratico e amministrativo, cercando d’indebolire il controllo del clero su istruzione e giustizia. Quel clero gerarchizzato, con gli ayatollah-ol ozma e marja-e taqlid (i grandi ayatollah e coloro che erano ‘fonte di imitazione’ per i fedeli) ma orientato al quietismo, cioè a un interesse per la spiritualità che rinuncia all’impegno politico, mutava orientamento verso la metà degli anni Sessanta, sotto le teorie anticolonialiste di Ali Shariati e la spinta ideologico-organizzativa di Khomeini. Quest’ultimo, complottando contro lo Shah, era finito in esilio. Sull’Iran capofila regionale puntava nel medesimo periodo la visione  americana in Medio Oriente, soprattutto davanti al risvegliarsi d’un islamismo organizzato in campo sunnita con la Fratellanza Musulmana, comunque contrastata dal laicismo dei militari egiziani e dei loro presidenti (Gamal Abd el-Nasser, Anwar al-Sadat). Ma gli stessi regimi forti, “socialisteggianti” e inseriti nella sfera d’influenza sovietica dell’epoca, i Ba’thisti di Siria e Iraq, costituivano pur sempre un baluardo a qualsiasi ipotesi di Islam politico. La Persia dello Shah veniva carezzata dai più abili manovratori dell’occhio americano rivolto all’esterno, Henry Kissinger su tutti, quale regime da promuovere a potenza locale. Un’opzione più rassicurante rispetto a emiri e sceicchi delle meno popolose petromonarchie. Mentre la Turchia militarizzata dai colpi di mano delle Forze Armate (di cui la Cia tanto sapeva e tramava) risultava la punta di diamante della Nato verso in Levante russo e non solo. Il grande alleato israeliano, orgoglioso della sua potenza (già all’epoca atomica) mostrata nei ‘Sei giorni sei’ di guerra e conquiste (5-10 giugno 1967) era di casa a Teheran, specie coi propri agenti del Mossad, in quelle circostanze in funzione istruttiva verso i colleghi della Savak, e non distruttiva come ora coi Pasdaran. Per oltre un ventennio dalla collocazione di Reza figlio sul ‘Trono del Pavone’ i rapporti politici, militari, economici fra i governi di Teheran e Tel Aviv furono cordiali e proficui. Con la cacciata dello Shah iniziava una sorta di ‘pace fredda’, sebbene nel corso degli otto anni di conflitto Iran-Iraq Israele supportò gli ayatollah con aiuti militari e d’Intelligence contro Saddam Hussein, considerato un nemico regionale comune. 

Folla davanti all’ambasciata statunitense di Teheran nel febbraio 1979 (AP Photo)

Paradosso della Storia, era stato il premio Nobel per la pace Yitzhak Rabin, Primo ministro d’Israele fra il 1992 e il 1995, a rompere le relazioni fra i due Stati, con l’intento di condurre il suo Paese su una posizione di dominio nell’area mediorientale, ben oltre le occupazioni illegali di Gerusalemme, delle alture siriane del Golan e la crescente infiltrazione in Cisgiordania di coloni provenienti, come la sua famiglia, dall’est europeo. L’aumento delle violenze di Israeli Defence Forces contro la popolazione palestinese, lo scoppio della prima Intifada, venivano giudicate dall’intero mondo islamico un punto di non ritorno. La nazione sciita non era da meno e in base al sostegno a quelle comunità presenti in un Libano, che aveva già subìto aggressive invasioni israeliane (nel 1978 e 1982), avviava il supporto economico e militare alle milizie di Hezbollah e Hamas, cui col tempo si sono aggiunti Jihad islamica palestineseAnsar Allah in Yemen, più alcuni gruppi iracheni che operano sul proprio territorio (Kata’ib Hezbollah, Asaib Ahl al-Haq, Badr e altri minori). Erano i prodromi di quello che verrà definito l’Asse della Resistenza. Il motivo di questa scelta della leadership iraniana era duplice: superare l’asfissìa politica e l’isolamento nelle relazioni internazionali ed economiche del Paese riscontrate dopo il logorante conflitto con l’Iraq e creare una ‘profondità strategica’, una ‘difesa avanzata’ del suo territorio nella vasta e intricata regione, dal momento che i rapporti con Stati Uniti e Israele diventavano sempre più incandescenti. Agli iniziali conflitti verbali il crescendo è deflagrato in tempi recenti. L’irrisolta questione palestinese, che coinvolge il mondo arabo, riceveva il sostegno dell’Iran rivoluzionario del Ruhollah e del suo prescelto nell’incarico di Guida Suprema, Ali Khamenei, ma gli animi si sono ulteriormente infuocati durante la presidenza dell’ex basij Mohammad Ahmadinejad (2005-2013). Frequenti le invettive per “la distruzione dell’entità sionista” e meticoloso il suo fervore, assieme alla componente più radicale del ‘partito dei Pasdaran’, nell’inseguire il disegno del nucleare civile e militare. Un piano che tuttora fa fibrillare diplomazie e cancellierati globali, intenzionati a interdire a ogni costo tale tecnologia alla nazione iraniana. Non tanto e non solo l’armamento atomico, di cui l’Aiea in queste ore ribadisce non ci siano prove per così allarmanti proclami, ma lo stesso impiego civile di un’energia ampiamente diffusa in varie latitudini. Discorrere sui processi di produzione sull’irrisolto della fusione e le sue scorie che possono sedimentare per millenni e il vantaggioso utilizzo della fissione, rappresentano questioni scientifiche della comunità ricercatrice internazionale, non è questo il punto. Quello che i governi occidentali, all’unisono con Stati Uniti e Israele, non vogliono concedere agli ingegneri nucleari iraniani è l’arricchimento dell’uranio anche per scopi civili. Perciò da anni il Mossad li ammazza, prima ancora di liquidare i capi dei Pasdaran. Mentre adesso, davanti al fantasma o alla congettura del possibile prossimo ordigno atomico iraniano, gli F16 dell’Heyl Ha’Avir sganciano missili sui reattori di Natanz, Fordow, Arak. Eppure è stato un altro fronte, agghiacciante e sempre parzialmente ricordato, quello siriano col suo mezzo milione di caduti e quindici milioni fra profughi, rifugiati, spostati di luoghi e di testa, a precedere questo smontaggio di pezzi di Medio Oriente. E’ nella Siria degli Asad, figlia di quei gruppi laici e sedicenti socialisti che comprendeva anche Egitto, Tunisia, Iraq, e che dovevano tenere testa alle monarchie sparse fra Maghreb e Mashreq (Marocco, Giordania e il blocco dei Paesi del Golfo) per il controllo della regione, che s’è giocato il più recente rilancio d’una supremazia. FFinora non c’è un vincitore né un dominio unico. Si sa chi ha perso, i vecchi clan familiari spodestati dalla piazza o dai confitti, e chi si propone come capofila. La Turchia in primo luogo, che usa bastone e carota, ma anche quell’intelligenza e furbizia diplomatiche che il borioso Occidente ha smarrito da tempo. Per tacere dei primatisti suprematisti d’America, deliranti attorno all’ultimo improbabile ma reale presidente. Eppure, per oltre un ventennio la Casa Bianca ha ospitato uomini e politiche nient’affatto rassicuranti per ponderatezza e misura. L’Enduring Freedom in Afghanistan, la guerra in Iraq, vera manna dal cielo per la Jihad globale, erano partorite dai consiglieri del poco istrionico George W. Bush, figlio di cotanto padre che in occasione del lancio delle ostilità col Desert Storm di più d’un decennio precedente (era il 17 gennaio 1991) sentenziava alla nazione e al mondo: “Siamo davanti a una risposta che orienterà il futuro per i prossimi cento anni”. Ora che il mondo attende le decisioni dell’ondivago Donald Trump, se coadiuvare Israele nel bombardamento di siti militari e condomìni civili a Teheran e dintorni, e lo fa nello Studio Ovale al cospetto d’un manipolo di calciatori impegnati nel primo Mondiale per Club (sic), c’è poco da stupirsi. Non tanto del baraccone mainstream mediatico, ma del Barnum geopolitico che dall’insulto dello “Stato canaglia” è passato al bullismo dell’aggressione all’altrui sovranità, fino alla criminalità militare tuttora improfumata di presunta democrazia. Il cacciatore di bambini Benjamin Netanyahu resta un Erode, sia se riceverà il supporto dei bombardieri B2 di Us Air Force per lanciare la superbomba GBU-57 (quattordici tonnellate complessive, due e mezzo d’esplosivo dedicato alla morte) per disgregare le centrifughe di Fordow seppellite a 100 metri di profondità, sia se proseguirà di propria sponte il progetto d’impadronirsi del Medio Oriente radendone al suolo un buon tratto. L’alternativa a una supremazia regionale incentrata sui conciliaboli diplomatici di Recep Tayyp Erdoğan o sui conflitti eterni lanciati dal primo fra gli israeliani è il ‘favoloso mondo di bin Salman’. Una società pacificata dalla ricchezza di pochi e aperta ai soli beati del globo. Un ambiente immacolato dagli eventi mercantili non da guerre. Queste MbS le ha provate contro i ribelli Houthi che attaccavano il governo yemenita di ʿAbd Rabbih Manṣūr Hādī, poi riparato a Ryahd e difeso dai sauditi, ne è uscito con le ossa rotte. Pur dotato dei sofisticati armamenti elettronici della costosissima aviazione griffata Lockheed-Martin non è riuscito a piegare i miliziani di Ansar Allah (sciiti zaiditi di stirpe hashemita) che hanno resistito alle tempeste di fuoco del 2015 e nuovamente dal 2016 al 2018. Loro se ne stanno pimpanti lungo le coste di Aden, colpendo i cargo che trasportano merce a Israele, pur quando questi non sventolano la bandiera con la stella di David. A dimostrazione d’un servizio d’Intelligence, magari minimo ma efficace. Tutto in sostegno dei martoriati fratelli palestinesi e dimostrando d’essere l’ultimo anello vitale d’un Asse della Resistenza altrove profondamente piegato da Israele. Se verrà il loro turno, si vedrà. Attualmente i generali di Tsahal hanno ben altri obiettivi nel mirino. Stretta fra i conflitti, l’Arabia Saudita dell’irrequieto e ambizioso principe-sovrano è l’attore geopolitico che con la ‘Visione 2030’ pensa a una regione messa in pace coi petrodollari da reinvestire. I due termini s’affratellano, gli affari scivolano tranquilli senza i marosi delle guerre. Purtroppo il Medio Oriente è diventato sinonimo di conflitti e chi da essi ricava profitti, con qualsiasi merce non solo armi o con le conseguenti speculazioni finanziarie, seppure non guarda a ostilità imperiture, le fomenta periodicamente. La Storia del ‘Secolo Breve’ è stata questa. Quella del Millennio che lo segue ha tutta la fisionomia per imitarlo e superarlo. 

articolo pubblicato su https://enricocampofreda.blogspot.com/

di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022 • L'Intagliatore 2025

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