Il Teatro Litta di Milano ha ospitato settimana scorsa in prima nazionale Flush, biografia di un cane, liberamente ispirata all’omonimo romanzo della celeberrima scrittrice inglese Woolf
Nel silenzio in sala, entra dalla platea del Teatro Litta MTM di Milano, incastonata in un fascio di luce, avvolta in una cappotto lungo stile anni ’30, con il collo con il pelo, e, rivolgendosi agli spettatori, come se anche loro fossero parte del Bloomsbury Group, li invita alle celebri serate del giovedì, alle quali partecipavano amici e intellettuali per discutere di politica, arte e letteratura. Lei è Virginia Woolf. Sale sul palco, nella sua abitazione londinese, festeggia accanto al marito Leonard le 19mila copie vendute in pochi mesi di Flush, pubblicati dalla Hogarth Press, la casa editrice che Virginia e Leonard hanno di fondare insieme nel 1917, dopo aver visto una macchina da stampa in vendita in un negozio. La regia trasforma la scena in una stanza mentale. La poetessa Elizabeth Barrett Browning, e Virginia si sfiorano come due specchi. Un cane osserva, ascolta, annusa, capisce le vibrazioni del cuore umano. La voce di Flush si confonde con quella di Woolf e di Antigone. Leggerezza iniziale si trasforma man mano in aria più cupa, fra gli echi di guerra, il suono delle incursioni aeree nel cielo di Londra. Non è più la storia di un cane e della sua padrona, ma della potenza della scrittura come atto salvifico di libertà.

Il Teatro Litta di Milano ha ospitato settimana scorsa in prima nazionale Flush. Biografia di un cane, nuova produzione degli Eccentrici Dadarò, liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Virginia Woolf. La pièce, firmata da Rossella Rapisarda, Fabrizio Visconti e Michela Marelli, con la regia e il disegno luci di Fabrizio Visconti, in poco più di un ora porta in scena un un originale e ironico divertissement che racconta la vita di Flush, cocker spaniel appartenuto alla poetessa Elisabeth Barrett, intrecciato alla biografia di Virginia Woolf, riflessioni sulla libertà della donne, l’insensatezza della guerra, che restituisce al presente tutta l’attualità dei temi woolfiani, capaci di risuonare oggi in questo mondo folle e guerrafondaio con la stessa urgenza di inizio Novecento. Uno spettacolo dalla partitura complessa, una drammaturgia ricchissima di suggestioni, stracolma di sottotesto. Il registro è leggero nella prima parte, ma è impossibile non presentire il respiro da tragedia che vieppiù cresce, fino a quella mattina del 28 marzo 1941, quando Virginia non ce la fa più a lottare, teme che la depressione torni a prendersela, l’incubo della invasione tedesca, e allora prende il suo bastone, e infilata una grossa pietra in tasca della pelliccia, esce di casa, cammina fino alle acque del fiume ’Ouse, lasciandosi annegare. “Un gesto che è più un movimento di vita che di morte, una liberazione“, dice Rossella Rapisarda. Gesto estremo che in scena viene evocato senza tragicità, l’attrice si abbandona sulla poltrona con un lento movimento atletico. Si sente solo il rumore dell’acqua, in scena. Un grande plauso a Rossella Rapisarda, generosa e sensibile, attenta al dettaglio che conta, con profondità e dolcezza e un’ironia sottile e pungente, sostenuta da un ottimo Antonio Rosti. Flush è la biografia di un cane che non ti aspetti. Che dietro l’apparente leggerezza, nasconde riflessioni profonde. In cui si riflette il dolore e la speranza, il dirompente potere trasformativo che forse solo l’arte può ancora donarci. Un altare su cui deporre la violenza, l’oppressione, e rigenerare amore, libertà. Di tutto questo abbiamo parlato in questa intervista con Rossella Rapisarda.

Rossella, come nasce l’incontro con questo testo di Virginia Woolf?
Partiamo da questa premessa: anni fa avevo un cocker Argo. Un giorno, in una libreria l’occhio cade su una copertina con l’immagine di un cocker. Era Flush di Virgina Woolf. Ne rimasi colpita. in effetti il cane è un punto abbastanza inatteso. Non è soltanto il divertissement ricco di ironia,è lo spaccato dell’epoca vittoriana, e un’acuta riflessione sulla natura umana, visti attraverso lo sguardo di un cane. Ne parlai con Michela (Marelli, drammaturga) anche lei ha un cocker. La consulenza all’analisi del testo di Jurij Alshitz, regista teatrale, pedagogo russo, è stata preziosa. Non doveva essere una narrazione tradizionale, ma con salti temporali e più momenti che si intersecano secondo flussi di pensiero.
Sicuramente è poco noto rispetto ad altre sue opere
Ma non per questo meno importante dal punto vista letterario, è stato il maggior successo della Woolf, con 19mila copie vendute. Scrivendolo (nel 1933), aveva in mente due cani ben precisi. Anzitutto, Flush, il cane di Elizabeth Barrett Browning, una delle maggiori poetesse della letteratura inglese, debole e malaticcia che trascorre le sue giornate tra i cuscini, al quale la Woolf aveva recentemente pubblicato la biografia. Ma anche Pinka, la cagnolina che l’amica/amante Vita Sackville-West le aveva donato nel 1926. C’e una immedesimazione Virginia scrive a Vita: “Ogni mattina lei (Pinka,ndr) salta sul mio letto e mi bacia, e io mi dico: questo è da Vita”. Pur leggerissimo e giocoso, questo libro si configura come un tentativo di capire, di calarsi in un punto di vista radicalmente altro come quello dell’animale. Per costituire una sbalorditiva alleanza tra voci minoritarie, tra voci tacitate: quella non umana e quella femminile.
Dietro la storia di un cane, c’è la battaglia di una donna per conquistare la propria voce
Flush, il cocker spaniel della poetessa Elisabeth Barrett, diventa il simbolo di un rispecchiamento continuo e asimmetrico: mentre l’animale osserva e accompagna la sua padrona, Elisabeth si emancipa dal padre autoritario e dalla gabbia sociale che la imprigionava, scegliendo la libertà e l’amore per Robert Browning. In effetti, prima di incontrare Elizabeth Barrett la vita di Flush è luminosa, aerea, bucolica, corre per i prati, sgambetta, insegue fagiani. Nella Londra vittoriana, un cane di razza è sempre al guinzaglio, non può correre libero in un parco, rotolarsi nel fango e inseguire gli odori del mondo. Il guinzaglio di Flush si fa metafora di dipendenza e oppressione. Il migliore esempio di questo procedimento si trova tra le pagine che raccontano il viaggio in Italia di Barrett, e a Firenze quando Flush può finalmente scorrazzare senza guinzaglio per i prati e gli argini dell’Arno a Firenze.

Mi è parso di ritrovare anche echi di riflessioni esposte in Le tre ghinee, il saggio pacifista e femminista di Virginia Woolf
Esatto. Virginia Woolf è immensa nel suo “Le tre ghinee”, un saggio epistolare contro la guerra, in cui si denuncia e dimostra il legame inscindibile fra sistema patriarcale, militarismo e regimi totalitari, tra il potere esercitato nella sfera pubblica e nella sfera privata. Virginia Woolf dà alle stampe Le tre ghinee tra il 1936 e il 1938. L’Europa è sempre più stretta dalla morsa del nazi-fascismo: la guerra è ormai alle porte. Il saggio in sostanza ruota attorno a una domanda: quale contributo possono dare le donne alla prevenzione della guerra? Per l’autrice la conquista di un’istruzione elevata e dell’indipendenza economica sono questioni indispensabili per potersi emancipare. L’attualità di questo saggio, purtroppo, è sorprendente. Impressionante pensare che siamo qui a discutere ancora di emancipazione e indipendenza delle donne, di odio tra popoli, di guerre, ancora e sempre più cruente.
Nella seconda parte, date voce e corpo anche alla figura di Antigone, creando un tessuto narrativo potente
Virginia Woolf ha commentato, trascritto e tradotto passi dell’Antigone di Sofocle nell’arco di venti anni. In diversi saggi fa riferimenti espliciti alla figura di Antigone, e fa apparizione anche ne Le tre ghinee. Diventa rappresentativa di tutte le donne che nel corso del secolo hanno osato parlare. Hanno detto no al potere, e si sono ribellate. Un archetipo della resistenza femminile novecentesca al discorso tradizionalmente maschile della guerra stessa. In opposizione alle esigenze della ragion di Stato. E’ il mito fondativo dell’autonomia personale che scegli il suicidio come ultimo gesto di rifiuto di un abuso di potere che le toglie tutto e la rinchiude in una caverna.
Arriviamo al finale, che abbaglia, con l’immagine (evocata da un efficae Antonio Rosti)delle guardie che continuano a giocare a carte, dopo il suicidio di Antigone, indifferenti al dramma.
E’ una scena dell’Antigone della tragedia che Jean Anouilh ha scritto nel 1941 e pubblicato nel 1943, durante l’occupazione nazista in Francia. Questa scelta mettente in risalto l’indifferenza della società che continua la propria routine, anche di fronte a tragedie. Come se, di fronte all’orrore della guerra, ce la potessimo cavare con una rassegnazione furba: indifferenti, senza dubbi, senza turbamenti. Come se l’Antigone che è in noi, in tutti noi, disposta a lottare per l’idea in cui crede, l’avessimo dimenticata. Ma la vita non ci chiede di essere “tranquilli”, men che meno “indifferenti”. E’ invito a riflettere su quanto stiamo vivendo oggi. Antigone, Virginia e le donne che si sono ribellate, non sopportavano l’esclusione che impediva loro di essere libere. Come per Antigone, per Virginia Woolf è l’amore, non l’odio, l’unica scelta possibile. L’odio rende schiavi. E che cosa vogliamo noi? A che cosa ci ribelliamo? Cosa ci è insopportabile? Grazie a quale sentimento siamo (possiamo essere) una forza invincibile? Vorrei che tornassimo a interrogare il nostro quotidiano, i nostri atteggiamenti. L’arte, il teatro, può essere una fonte energetica basilare, può rimettere in movimento la nostra immaginazione.
