Il bilancio delle vittime delle piogge monsoniche e delle conseguenti inondazioni e frane in Pakistan sono centinaia, con un migliaio di feriti. Non è solo il flagello climatico ad attanagliare la Repubblica islamica che, infatti, sta vivendo anche un momento difficile politico anche per l’impatto jihadista, protetto e tollerato dalle regioni del vicino Afghanistan. Incertezza e instabilità corrono insieme in un Paese sempre più in crisi, che ribolle di contraddizioni sociali con una visione dell’islam differente dai canoni statali
Se il dramma periodico, incrementato dal cambiamento climatico, è tornato a essere la turbolenza delle inondazioni che in queste settimane mietono morti a centinaia e avevano provocato milioni di sfollati nell’ultimo triennio, l’inquietudine del potere pakistano resta l’impatto jihadista sulla società. Ci pensano e ne discutono i vertici politici e militari, in diverse circostanze scarsamente collaborativi fra loro, con uno strapotere di quest’ultimi capaci d’influenzare e imporre svolte clamorose pur sotto la maschera parlamentare. Ne sa qualcosa l’ex premier Imran Khan ostracizzato dall’esercito e vittima di processi per corruzione, reale o presunta, da parte della magistratura. Ora i rapporti fra l’attuale capo del governo Shehbaz Sharif e il capo di Stato maggiore Asim Munir paiono filar lisci in funzione d’un fronte comune antiterrorista. Perché gli stranoti Tehreek-e Taliban, il gruppo Hafiz Gul Bahadur, i separatisti dell’Esercito di liberazione Baloch usano il precario equilibrio regionale per condurre attacchi e intensificare operazioni davanti a squilibri e crisi che pongono Islamabad in acerrima concorrenza con Delhi o nell’intento d’influenzare chi comanda a Kabul, solo per citare i confini prossimi. E’ un dato di fatto che con la guida talebana i fratelli e i gruppi jihadisti d’oltreconfine hanno goduto di tolleranza e aiuti in diverse province afghane, dove si sono rifugiati per ripararsi dalle retate delle Forze Armate prima del generale Qamar Javed Bajwa poi di Munir, fino a potersi riorganizzare e addestrare per rilanciare assalti a strutture militari e civili in Pakistan. La loro logica continua a essere destabilizzare la sicurezza, dimostrare l’impossibilità di controllo in territori che ribollono di contraddizioni sociali e una visione dell’islam differente dai canoni statali. Un attivismo attentatore non dissimile da quello praticato dall’Isis-K dentro dell’Emirato afghano. Secondo valutazioni di analisti del jihadismo globale l’odierno TTP rinvigorito in Afghanistan può contare su 6-7.000 miliziani capaci di combattere anche con armamenti tecnologicamente avanzati, acquisiti dall’arsenale che l’US Army ha abbandonato con la ritirata dell’agosto 2021. Armi in certi casi trasportabili in casa e utilizzate nelle località prescelte per gli assalti.

La linea su cui s’è orientata la leadership di Islamabad d’ogni colore, i partiti dei clan Sharif, Bhutto e anche gli alternativi di Khan, punta a evitare sanguinose repressioni interne simili alla famigerata Zarb-e Azb di metà 2014, quando il Waziristan del Nord, area d’origine prediletta dai TTP, fu messa a ferro e fuoco, con esecuzioni sommarie di miliziani (ne vennero eliminati un migliaio) e uccisioni di oltre duemila civili fra loro familiari e coabitanti. Ne seguirono un’evacuazione forzata di circa un milione di persone, squilibri sociali con ricadute politiche e confessionali. Insomma alla lunga il ‘terrorismo statale’ non ha pagato, sebbene avesse parzialmente tamponato la diffusione jihadista. Nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa partiti laici come l’Awami e la storica formazione islamica deobandi Jamiat-Ulema-e Hind s’oppongono fermamente al ritorno della forza bruta per inseguire una sicurezza sociale che poi oggettivamente sfugge. Certo, agenti dei Servizi interni sempre in odore di doppiogiochismo, certificano come nell’ultimo biennio i favori dei taliban afghani sono stati molti e hanno rivitalizzato varie formazioni, oltre alle citate sono ricomparse le sigle di Lashkar-i Islam, Inqilab-i Islami che sacrificano meno uomini d’un tempo servendosi per gli attentati di droni, quindi gli stessi strumenti o roba simile a quella che perseguita il jihadismo. Peraltro questi droni non sono autoprodotti, provengono dal mercanto internazionale della tecnologia di guerra. Sulla copiosa ricomparsa di tale destabilizzazione intervengono anche le potenze mondiali. Il feldmaresciallo Munir ha avuto recenti incontri con gli omologhi statunitensi, e anche il colosso cinese si preoccupa delle turbolenze pensando, come al solito, alla sua pianificazione economica. Quella del corridoio sino-pakistano che ha per acronimo CPEC, lanciato nel 2015 quando a Islamabad sedeva Sharif major, il fratello dell’attuale premier. Gli effetti, arricchiti da sessantadue miliardi di dollari, tanto è il business che gira attorno a questo percorso avrebbero ricadute positive anche sul vicino Afghanistan. Perciò questa settimana i ministri degli Esteri Wang Yi e Ishaq Dar, provenienti da Pechino e Islamabad, e Amir Muttaqi, padrone di casa a Kabul si sono incontrati per rilanciare il piano in base a un clima politico esente da contrasti fra gli Stati e logoramenti terroristici. Le preoccupazioni cinesi sono d’ordine strutturale, riguardano la certezza di poter usare infrastrutture e manodopera senza incappare in attentati. I gruppi separatisti del Balochistan preoccupano più d’ogni altro, poiché non solo attivisti ma gli abitanti locali considerano le maestranze cinesi predoni delle loro risorse. Le statistiche del 2024 fornite dall’Istituto internazionale di studi sulla sicurezza sono esplicite: gli attacchi sono aumentati del 5%, i decessi del 121%, i ferimenti dell’84%. Ed è difficile che l’affarismo placherà il credo jihadista che si nutre d’altro e si finanzia per vie diverse.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it