Al Mudec, fino al 30 luglio, sono in esposizione 60 opere della Visual Activist Muholi, cronista del nostro tempo

“Il ritratto trasforma un comune oggetto faidate in un ornamento estetico, parlando allo stesso tempo di sicurezza, società e brutalità – confinamento. Io ho deciso e fatto la scelta di espormi perché sentivo che nessuno poteva farlo per me”

Ha deciso di definirsi come “loro” e non come lei o lui. Più attivista che artista. In realtà percorrendo con occhio attento i 60 autoritratti in mostra al Mudec, Zanele-Muholi, è un’attenta cronista della sua stessa anima. L’artista rimanda a noi lo stesso dolore, lo stesso disorientamento che riesce nel contempo a trasformare anche in gioco, attraverso i molteplici strumenti di uso quotidiano che utilizza per le sue opere.

Muholi non ama le definizioni, al punto di aver rifiutato ogni connotazione di genere. Ha scelto di rinunciare anche al suo nome Zanele , che in lingua Zulu, significa “femminile”. Nella lingua anglossassone per Muholi si usa il termine “loro” plurale, privo di declinazioni maschili e femminili, solo neutro, sinonimo di libertà di genere e di identità. L’unica definizione che Muholi riconosce è quella di Visual Activist.

Leggendo la sua biografia, il suo percorso artistico di Visual Activist, non può essere che quello del riscatto personale e sociale per quello che Muholi ha realmente vissuto con dolore. Nel 1972 nasce a Umlazi, non lontano da Durman in pieno regime di apartheid. Nel 1994 si svolgono le prime elezioni libere nel paese sudafricano e Nelson Mandela decreta la fine dell’apartheid. Nel 1996 viene sancito dalla costituzione sudafricana l’uguaglianza razziale e la fine della discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Muholi inizia nel 2000 un percorso di documentazione fotografica per la sua comunità LGBTQIA+ a cui appartiene e nel 2001 incontra il suo mentore e maestro, David Goldblatt, fotografo sudafricano di fama mondiale che eserciterà su di lei una straordinaria influenza.

Nel percorso della mostra si possono vedere gli autoritratti che Muholi  costruisce in modo attento con elementi di uso quotidiano, come mollette, spille, pettini, fascette, guanti. Ogni elemento diventa decorazione e copricapo originali. Spille, catene e copertoni di ruote vengono trasformate dall’artista in ricche collane che avvolgono il collo. Ogni riferimento non è casuale e come nella più schietta Popo Art, anche qui il ruolo dell’oggetto è quello di contestare un “potere malvagio”. Quello dell’apartheid fatto di soprusi e violenze, denaro.

Muholi riesce ad assemblare questi oggetti in modo fantasioso e giocoso togliendoli il loro valore sinistro e violento e restituendoli un ruolo decorativo ed estetico.  I suoi autoritratti sono vivaci interpretazioni della sua identità ritrovata. Non femmina, né maschio. Semplicemente essere umano.

MUHOLI A VISUAL ACTIVISTMUDEC- Museo delle Culture,
via Tortona 56, Milano
infowww.mudec.it
Orari

Lunedì 14.30-19.30

da Martedì fino a  Domenica 9.30-22.30

Fino al 30 luglio 2023

Di Marcella Baldassini

Grafico editoriale e giornalista professionista iscritta all’Ordine nel 1994. Ho curato la veste grafica per numerose riviste di arredamento (Domus, Gioia Casa, Spazio Casa) e settimanali femminili di attualità, gossip e benessere (Gente, Vitality). Da sempre appassionata d’arte, design, e psicologia. Ho lavorato, inoltre, con l’Editoriale Domus, Rusconi Editore - Hearst, Editoriale Jackson e in varie agenzie di pubblicità come visual. Ho collaborato anche con ultimaparola.net e stadio5.it

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