Reza Ciro Pahlavi

Il figlio del sovrano-fantoccio che governò in Iran fino al 1979, si candida per il nuovo Iran e manda un messaggio di sfida a Khamenei: “È come il Muro di Berlino, il regime viene giù”. Il futuro del Paese appare sempre più nebuloso

Dove finiranno gli slogan, le grida, i desideri delle giovani di “Donna, vita e libertà” se per Jin, jiyan, azadi’ è già pronto Woman, life, freedom’. Non che lingue differenti non possano indicare medesimi concetti ma già le parole, che introducono nozioni e azioni, hanno un rapporto stretto con le culture, gli orientamenti, le mode. Se poi devono aver a che fare con le linee geopolitiche, gli usi e gli abusi possono galoppare. Nei giorni di concentrati attacchi militari delle aviazioni di Israele e Stati Uniti ai siti nucleari iraniani, che hanno colpito anche Teheran falciando centinaia di vite, chi non ama il regime degli ayatollah, oppositori e contestatori,  sono diventati essi stessi potenziali bersagli. Qualcuno è finito fra le vittime dei raid, è accaduto alla poetessa ventitreenne Parnia Abbasi, rimasta sotto le macerie del suo edificio bombardato nel quartiere Sattarkhan. Più d’un antagonista al regime non s’è mostrato favorevole a queste stragi, sostenendo che la guerra non introduce alcuna democrazia. Qualche voce a sostegno del cambio di regime con la forza s’è levata dalle tranquille poltrone degli studi televisivi in cui professori o intellettuali sono stati intervistati. Dall’estero. Il tono più stonato e screditato, non dalla nemesi storica, ma da quanto va sostenendo ora alla bell’età di sessantaquattro primavere è quello di Reza Ciro Pahlavi, a cui è stata approntata nientemeno che una conferenza stampa parigina. Volato in Francia probabilmente con un Air Force statunitense, visto che lui nei siti militari è di casa, non solo per aver pilotato caccia ma per aver vissuto a Langley, dietro la cortina di protezione della Cia dall’età di diciott’anni. Quando appunto fuggì, assieme ai familiari dalla Teheran che defenestrava suo padre. Angosciosa ombra della sua esistenza quella di papà Shah, ma pure suo nume tutelare post mortem, perché ogni avere dei discendenti, a cominciare dal primogenito Ciro, proveniva dai furti d’un altro regime, quello voluto e protetto proprio dalla Cia e dall’MI6 britannico ai danni del premier Mohammad Mossadeq e del popolo iraniano.

Un cartello con lo slogan scritto in curdo e in inglese che si è diffuso in tutto il mondo

Fu il golpe sostenuto dall’Occidente geopolitico e dal capitale imperialista delle “Sette sorelle” del petrolio ai danni di chi reclamava il proprio diritto di monetizzare le ricchezze statali del sottosuolo. Reza padre fu il sovrano-fantoccio che rimpiazzava uno statista, peraltro liberale, legittimamente eletto. Non è stata l’unica ferita inferta all’Iran moderno. Le altre, abissali e sanguinanti, le provocava la polizia segreta Savak, feroce torturatrice di patrioti per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Un organismo istruito, affiancato, seguito da agenti della Cia. Se Reza junior all’epoca era bambino e certi orrori di famiglia non li conosceva, dall’epoca dell’esilio dorato negli States e dei tanti contatti internazionali nel ruolo di Altezza Imperiale e Principe Ereditario, volendo avrebbe potuto scoprirli. E agire di conseguenza. Non sentirne l’ignominia, che ricadeva sull’operato genitoriale, ma almeno discostarsene rinunciando ad antistoriche pretese. Non è accaduto. Nella sua nullità imperiale del cosiddetto ‘Trono del Pavone’ ora finisce burattino al servizio dell’Impero della tecnologia armata che pretende di dominare il globo. Che col tempo gli ha cucito addosso la veste di difensore dei “diritti umani”, in relazione alla diaspora iraniana riparata all’estero per i legami, probabilmente poco edificanti, col regime di papà Shah. Nel soliloquio parigino Reza Ciro ha parlato di questi tragici giorni per l’Iran simili alla caduta del Muro di Berlino”. Proprio così.  E poi ha detto: “Non cerco il potere (ergo, nessuna restaurazione monarchica) voglio aiutare la nazione, essere al servizio dei miei connazionali verso la giustizia, la stabilità, la libertà (eccola azadi, scusate freedom)”. Quindi rivolto ad Ali Khamenei:Dimettiti, avrai un processo equo”. La disgrazia iraniana, nella tragedia mediorientale di questi mesi, s’accompagna anche a simili comparsate. E’ l’opposizione che dovrà comprendere qual è il futuro.

articolo pubblicato su    http://enricocampofreda.blogspot.it

di Enrico Campofreda

Giornalista. Ha scritto per Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive di politica mediorientale per il mensile Confronti, per alcuni quotidiani online e sul blog http://enricocampofreda.blogspot.it/ Publicazioni: • L’urlo e il sorriso, 2007 • Hépou moi, 2010 • Diario di una primavera incompiuta, 2012 • Afghanistan fuori dall’Afghanistan, 2013 • Leggeri e pungenti, 2017 • Bitume, 2020 • Corazón andino, 2020 • Il ragazzo dai sali d’argento, 2021 • Pane, olio, vino e sale, 2022 • L'Intagliatore 2025

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